Ogni tanto sarebbe utile fermarsi a riflettere

By Fabio Masini

Ogni tanto sarebbe utile fermarsi a riflettere. Su chi siamo, su cosa facciamo, perchè lo facciamo in un certo modo piuttosto che in un altro. Insomma, prendersi una pausa per andare più a fondo.

Quando si fa l’educatore di mestiere, come è il caso (almeno in gran parte) del sottoscritto, capita spesso di inserire il pilota automatico e lasciare che la routine prenda il sopravvento sulle domande. E invece è proprio nella necessità di porsi domande continue, lasciare che si evolvano in risposta all’evoluzione de bisogni e dei contesti, che sta in fondo la chiave per un’educazione di qualità.

Occorre sempre rifuggere dalla presunzione di aver acquisito una conoscenza o delle competenze definitive, finalmente degne di essere trasmesse a qualcun altro. Chi ha la fortuna di coniugare insegnamento e ricerca è parzialmente consapevole di questo tema; perché la ricerca impone di rimettere in discussione costantemente le conoscenze acquisite, aprendosi ad altre prospettive interpretative e conoscitive. E che occorra quindi uno scambio costante e sinergico di informazioni fra il ricercatore (che vive in un a comunità accademica in continua evoluzione) e il docente (che vive il contatto quotidiano con bisogni esperienziali che mutano in risposta ai contesti); cosa, paradossalmente, più complessa proprio quando questi due soggetti sono la stessa persona.

Utile perciò porsi, periodicamente, domande sul come e il perché insegniamo, sul rapporto fra empatia ed autorevolezza (molto meno lineare di quanto possa sembrare), sul pensiero critico e le modalità per trasmetterlo, sulla gestione dei feedback ed il loro utilizzo.

Non perché ci sia qualcosa da imparare. Perché in fondo, ne sono convinto, si possono perfezionare tecniche ed acquisire maggiori consapevolezze metodologiche, ma educare è un mestiere che non si può mai davvero imparare. Ma perché per continuare ad esercitarlo occorre analizzare e mettere in discussione i modi e le ragioni profonde in cui e per cui lo facciamo. Occorre destrutturare le routine per costruirne di nuove, più efficaci.

Sarà per questo che nei giorni trascorsi a Barcellona mi è apparso sotto una luce completamente nuova quel perenne cantiere ideato dal geniale Antoni Gaudi. Guardando quelle gru costantemente presenti nelle foto della Sagrada Familia, sempre in costruzione, non mi sono più parse come una patologia del panorama, un simbolo di transitorietà che prima o poi dovrà scomparire per lasciare spazio all’opera compiuta.

Forse proprio quelle gru sono in fondo lo specchio più vero dell’esistenza umana. Perché, esattamente come la Sagrada Familia, la vita di ciascuno di noi è una cattedrale in continua costruzione. In cui il costruire è parte integrante del panorama; ne è un tratto costitutivo imprescindibile: fisiologico, non patologico. Ed ho acquisito la consapevolezza che, in fondo, quando i lavori dovessero cessare e le gru essere tolte; quando la costruzione ambirà a potersi dire ‘definitiva’; in quel momento, in realtà, la Sagrada Familia smetterà di esistere, almeno come progetto geniale.

Fabio Masini

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